Per il prossimo numero di Krill (Krill 02 - maggio 2010) abbiamo pensato di sviluppare il tema della "fuga". Come sempre, non abbiamo la pretesa di esaurire un discorso presentando una prospettiva monolitica. Piuttosto si tratta di suggerire una serie di spunti e vedere un po' cosa questi producono nella libera elaborazione di quanti vorranno collaborare con noi. Alla redazione il compito di sviluppare una composizione dei materiali pervenuti e di definire un discorso che restituisca l'eterogeneità degli stili, delle impostazioni e dei registri.
La fuga e le sue mille connotazioni: il viaggio, l'esilio, l'esodo, l'evasione, il rifiuto del lavoro e tanto altro ancora. È, anche questo, un tema che si presta a dare vita ad incroci tra etica ed immaginario. Le posizioni possibili sul tema della fuga sono molteplici.
Si potrebbe partire da una lettura per cui essa si può considerare come una vera e propria forma d'arte, una prassi che si può affinare, verso la quale ci si può esercitare, una vera e propria forma di vita, insomma. La fuga come mossa risolutiva che scompagina lo stato di cose presente e che ci pone in una relazione nuova con il mondo. In questo senso si resta su un'accezione "classica" della fuga, intesa all'interno di un orizzonte che possiamo definire "romantico", nel quale la fuga è tensione pratica e ideale verso il rifiuto delle gerarchie, della disciplina, del comando e degli aspetti più normalizzanti del mondo in cui viviamo. Su questa linea gli spunti offerti dal cinema, dalla letteratura, dall'arte in generale sono innumerevoli.
È chiaro che la fuga può avere anche un risvolto tragico, non è soltanto una forma d'arte, una scelta carica di implicazioni estetiche: pensiamo alle condizioni allucinanti nelle quali tante persone attraversano il mare o il deserto o frontiere militarizzate, soltanto perchè, semplicemente, non c'è per loro possibilità di sopravvivere nel loro paese d'origine e nelle condizioni di partenza. Pensiamo a coloro che vengono definiti immigrati clandestini. Sono persone che mettono tutto in gioco e che, senza commettere alcun reato, arrivano nei nostri paesi "sviluppati" già con addosso lo stigma dei criminali. Perchè? Quanta vita c'è dietro una fuga?
Sicuramente quindi la fuga ha molteplici significati e, sicuramente, non può, oggi, essere interpretata unicamente a partire da una mitologia della liberazione, della rivoluzione, dell'evasione...Forse non ci sono vie di fuga, forse addirittura si fugge troppo da responsabilità varie, forse si fugge troppo poco. Forse la vera arte è quella di rimanere lì dove si è...chissà.
"Fuggi? Cosa fuggi non c'è modo di scappare", cantano i Baustelle. E infatti oggi, al top di un certo pessimismo, è legittimo credere che non ci sia alcuna possibilità di sottrazione e che perfino la fuga - alla lunga - sia un movimento fallimentare.
Diciamo che un dibattito sulla questione, soprattutto per quel che riguarda il nostro rapporto con il lavoro, con le modalità attraverso cui ci guadagnamo da vivere, potrebbe presentare tre posizioni:
I) è ancora possibile sottrarsi dal comando del lavoro in maniera intraprendente, solo che bisogna trovare "parabole" diverse da quelle che per tutti gli anni novanta ci hanno indicato nel cosiddetto " lavoro autonomo di seconda generazione" la exit strategy dal lavoro della fabbrica o del posto fisso che è stato dei nostri padri; II) è possibile fuggire e la fuga è un diritto; III) quella di alcuni di noi (speriamo residuale, perché altrimenti ci suicidiamo): cioè non è assolutamente possibile sottrarsi dal lavoro e dal meccanismo di scambio, nessuna strategia di sopravvivenza alternativa alla società dei lavori postfordisti è praticabile (salvo la vittoria al SuperEnalotto o al Win for life), nel postfordismo i margini progressivi di autonomia sono ridotti alla regressività del rapporto neo-schiavistico e la fuga è - comunque - senza scampo.
E ancora...La fuga di Bach. Fuga di colonnati brunelleschiani. Sono esempi di qualcosa che evoca in noi la proliferazioni gaudente, l'energia.. Ci sembra che qui possano aprirsi territori interessanti, dal momento che inaspettatamente la fuga ci appare come una delle possibili metafore del bello. Ancora: Fuga da Alcatraz, La grande fuga, On the road...In ogni fuga è contenuta la possibilità - forse - di un esotismo, di una lontananza, di un'altrove, che sono elementi che scompaginano un razionale "star qui al proprio posto", che si oppongono ai "fatti" proponendo la seduzione dell'incertezza.
Bach è matematica, è vero, ma è anche follia del numero, che diventa nota, nota che cammina e che scappa. Uno dei più grandiosi brani di be-bop si intitola "passi da gigante" (!). Il detenuto che scava col suo bel cucchiaino sui muri del carcere è un inno all'imprevedibile, un inno all'evasione necessaria.
C'è l'esotismo come possibilità della fuga, quindi, perché l'essenza della fuga è il viaggio. Da Ulisse sino all' Enterprice la nostra cultura ha costantemente prodotto esempi che raccontano l'esplorazione e la lontananza come forma di conoscenza.
E c'è un altrove quotidiano, domestico, catodico, c'è l'esotismo a buon mercato di cui ciascuno si approvvigiona nel market della mass-culture. C'è l'ethos della fuga che si specchia in se stesso: la casalinga che scruta i naufraghi dell'Isola dei famosi. Ma chi è il naufrago, e chi il sopravvisuto?...
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