Un racconto da “Utopia, la città che non c'è”, lo spettacolo del laboratorio di Orchestra Senza Confini
La luce che filtra dalla porta semiaperta sul giardino delle Manifatture Knos è ormai quella tagliente del Solleone, e anche nel frusciante tappeto sonoro che lambisce la sala, il tema emergente è la melodia orizzontale della controra salentina. A un mese di distanza da "Utopia, la città che non c'è", lo spettacolo finale del laboratorio teatrale di Knos Orchestra senza confini condotto dalla compagnia Factory, nella piccola sala dalle mura antracite regna il silenzio. Eppure, le pareti e le assi del palco sembrano ancora ribattere, di tanto in tanto, la flebile eco di un cinguettio.
Sembra ancora di sentirli, gli uccelli, planati dalla commedia di Aristofane sino al baricentro del millennio in corso. Archetipi di migranti, impersonati da chi migrante lo è anche fuori dalla quarta parete del teatro, ragazzi e ragazze dalle storie reali tese lungo il ponte del Mediterraneo, che per una sera si sono librati in volo, dimenticando la propria personale traversata in mare per quella, ideale, che dalla terra tende al cielo.
Lo stile è quello tipico di Factory: se il testo resta abbastanza fedele all'originale - ma non senza qualche modifica che dialoga con l'attualità - il lavoro di regia rivisita e riattiva le energie della commedia classica. Gli attori stessi basterebbero, in sé, a riassumere il significato di questa operazione, ma vi si aggiunge l'esasperazione del "sottotesto", l'interpretazione radicale delle parti che libera l'opera dal peso dei secoli per presentarla come un'atemporale proposta di riflessione.
Così, l'uccello servo è una donna di casa napoletana, l'Upupa ha l'aspetto di un re africano, mentre i due uomini che fomentano l'impresa dei volatili sono dichiaratamente italiani con l'aspirazione a emigrare verso luoghi migliori. Quando gli uccelli fondano la propria città, altri arrivano e l'immagine scelta per rappresentare il tentativo è quella di un mare con i flutti che risuonano attraverso le gole dei ragazzi. «Perché siete qui?» viene chiesto loro. «Era l'unico porto aperto» è la risposta: ancora un riferimento all'attualità.
Poi Moussa, l'Upupa nero che impera sulla città grida con una smorfia «è finita la pacchia!», ed è una risata liberatoria a spazzare via il velo blu calato in sala un istante prima. Di tanto in tanto qualcuno esita, inciampa su uno iato o su un accento, ripete un attacco, e allora sono Chiara De Pascalis e Fabio Tinella di Factory, anche loro in scena, a servire la battuta successiva strizzando l'occhio, o il regista Tonio De Nitto a bisbigliarla dalla platea. E gli attori la afferrano al volo e la rilanciano al pubblico.
Occhiali da sole e penne, un gallo vestito da gallo ma accanto a lui l'uccello sciantosa vestita di paillettes e le sorelle uccello abbigliate, in coordinato, alla maniera africana. L'uccello sevo è vestita di rosso, altri hanno pantaloni texture. Sgargianti i vestiti, sgargianti anche i vocii: stridono, gracchiano, gridano, intonano cinguettii che sfidano la resistenza dei timpani e che resteranno conficcati nella memoria nelle settimane a seguire.
Restano, anche, nella mente dei giovani attori che hanno preso parte all'esperimento di Orchestra senza confini. Un repertorio di parole nuove, per il gruppo che guadagna la padronanza dell'italiano gioo per gioo, e suoni e movimenti che né loro né i loro compagni d'avventura salentini - ragazzi quasi tutti alla prima prova teatrale - avrebbero previsto di liberare dalle proprie gole e mani e corpi. Un senso di librazione: ci piace pensare che sia proprio questo, prima di ogni altra cosa, ciò che resti loro dell'esperienza del laboratorio.
Dopotutto, l'ora trascorsa nella saletta del teatro delle Manifatture Knos non è che un velocissimo passaggio del progetto iniziato a marzo. Ben più ampio è il posto che questo occupa nella mente di chi vi ha partecipato: il desiderio, in mesi di training e prove, di lavorare alla costruzione di un progetto, il suo riverbero nella memoria, chissà se per poco o molto tempo ancora.